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sabato 21 ottobre 2017

RIFORMA DELLA UE: NON GETTIAMO IL BAMBINO CON L'ACQUA SPORCA

In questi giorni d'autunno si nota un certo attivismo fra i leader europei sul fronte del futuro dell'Unione. Ha iniziato il presidente francese Macron, con il suo discorso alla Sorbona del 27 settembre per una Europa "sovrana, unita e democratica"; ha rilanciato il presidente del consiglio UE Tusk, nella sua lettera ai leaders europei  alla vigilia della riunione del Consiglio a 27+1 del 18 e 19 Ottobre a Bruxelles. 

Certamente e' positiva la presa di coscienza che occorre coraggio per uscire dalla stagnazione (e prima ancora, il coraggio di riconoscere che questa stagnazione del progetto europeo esista, uscendo dalla continua ossessione del marketing comunitario ove tutto debba essere venduto come un "successo"), ma le proposte vanno nella giusta direzione?

Su questo occorrerebbe discutere. Se e' vero che l'Europa a due o più velocità e' un fatto ormai da molti anni e tanto vale prenderne atto, qualche distinguo e' necessario fare su ruolo futuro della Commissione Europea e centralità degli Stati Membri nel nuovo assetto di potere.

Per quanto riguarda la Commissione, da molto tempo ormai si e' verificato il cambiamento da fucina di idee a semplice "legificio" e gestore di progetti (distributore di soldi). L'espansione delle competenze vere e presunte non e' stato accompagnato da due fattori fondamentali:
  • un sentimento d'accordo diffuso degli stati membri rispetto a queste nuove competenze, con un tensione di fondo diffusa che porta ogni progetto di riforma ad un faticoso percorso legislativo e di messa in atto che risulta molte volte annacquato ed ambiguo, scontentando un po' tutti;
  • la mancanza di una vera riorganizzazione interna delle competenze, di ruoli e delle carriere, che ha portato frustrazione nel personale e la trasformazione dell'amministrazione comunitaria da un pool di esperti di primo piano ad un elefante burocratico che ha perso il senso della propria missione.
In tutto questo, la contraddizione (o meglio, la non chiarezza) del messaggio politico, esacerbata dall'allargamento del 2004 ed unita alla consapevole scelta "al ribasso" rispetto ai "top jobs" europei (i "dream teams" delle ultime stagioni Barroso/Ashton/Van Rumpoy e Juncker/Mogherini/Tusk parlano da soli), non hanno fatto che aumentare la confusione. In questo contesto, la riduzione del budget comunitario del post-Brexit potrebbe essere un buon "casus belli" per procedere in tal senso.

In questo senso, la tentazione (palpabile nei corridoi di Bruxelles che questo sia il messaggio fra le righe) di procedere ad un rafforzamento del "centralismo" degli Stati (il Consiglio), con una riduzione dello spazio per la Commissione ed un ruolo puramente "di tribuna" per il Parlamento, non e' la strada giusta. 

Se apprezzabile appare la spinta di Macron per liste transnazionali, questo certamente non può funzionare pienamente senza l'affermarsi di una "società civile europea", che un ritorno a nazionalismi, localismi e "sovranismi" vari non agevola di certo.

Che fare allora? Ripartire dai capisaldi che abbiamo più volte affermato:

Una Europa Federale (gli Stati Uniti d'Europa che suona in questo periodo storico come una pia utopia, purtroppo), accompagnata da un progressivo superamento degli stati nazionali basata sull'affermazione piena del principio di sussidiarietà, secondo la quale al costrutto comunitario spetterebbero tre compiti fondamentali:
  • Politica estera e di difesa
  • Piena realizzazione del mercato interno
  • Moneta.  
Tutte cose sulle quali non ci dilunghiamo in questa sede, ma che oggi facciamo poco o male e che sono invece fondamentali se vogliamo essere un attore credibile negli equilibri globali. 

Solo se questo e' l'obbiettivo finale allora avranno senso un ruolo più attivo del Consiglio, la salutare sforbiciata alle spese, la sburocratizzazione dell'impianto della Commissione e della miriade di Agenzie che le fanno da contorno.



Ulteriori letture


domenica 15 ottobre 2017

40 ANNI DI "CHARTA 77"


Esattamente 40 anni fa, nel 1977, nasceva a Praga, il movimento d'opposizione al regime comunista "Charta 77".  

Il nome del movimento proviene dal "Manifesto Charta 77", del gennaio 1977, che venne diffuso nelle città cecoslovacche in difesa di un concetto di diritti dell´uomo sul modello dell´Europa Occidentale; della cultura; della morale; della libertà della espressione e della libertà di religione. Ad esso aderirono intellettuali ed uomini della Chiesa cattolica, repressi dal regime. E stato il primo movimento di dissidenza in Cecoslovacchia.

Tutto ebbe iniziato nel 1968, quando Brežnev mando' i carri armati per schiacciare il "socialismo dal volto umano“ di Alexander Dubček (la "Primavera di Praga“). Il successivo periodo, detto di "normalizzazione", imposto alla Cecoslovacchia dal filosovietico Gustáv Husák, fu caratterizzato dalla repressione.

I comunisti iniziarono a perseguitare anche diverse forme espressive non conformiste, ad esempio un gruppo alternativo rock, i "Plastic People of theUniverse"; subito dopo un concerto, la polizia arresto' 4 membri del gruppo, con l'accusa di "turbamento dell´ordine pubblico“. Il gruppo era molto popolare tra i giovani e l‘ arresto dei membri del gruppo fu uno degli stimoli per agire.

In questo contesto nacque il Manifesto Charta 77, che chiedeva l’applicazione degli accordi firmati nell’Atto finale di Helskinki sul rispetto dei diritti umani e le convenzioni dell´ONU sui diritti politici, civili,economici e culturali.

Il Manifesto veniva reso noto e firmato da diverse personalità; già nel dicembre 1976 contava 242 firme raccolte. E stato anche pubblicato da alcuni giornali occidentali, come Le Monde, Allgemeine Zeitung, The Times e New York Times. I giornali cecoslovacchi, ovviamente, criticarono pesantemente il manifesto.

In reazione, il regime invito' tutti gli artisti ed attori al Teatro Nazionale di Praga a firmare la  cosiddetta "Anticharta“, per mostrare la lealtà verso il regime comunista e l'opposizione ai principi enunciati da Charta 77. Questo gesto deplorevole costituì una profonda umiliazione  per le élites culturali cecoslovacche.

Tutti coloro che firmarono il Manifesto, ed anche i loro familiari, subirono una repressione aperta, i processi politici, la reclusione oppure furono costretti ad emigrare.

Il movimento chiedeva un dialogo con il regime comunista e le sue posizioni erano rappresentate da tre portavoce rinnovati ogni anno. I primi furono Václav Havel,  Jiří Hájek ed Jan Patočka. Nel 1989, quando il regime cadde, il Manifesto aveva raccolto quasi 2000 firme.

Il movimento si è sciolto nel 1992, perché aveva esaurito il suo ruolo storico e raggiunto gli scopi prestabiliti.

Se chiediamo che ruolo potrebbe avere la Charta in questi tempi, dopo 40 anni: la risposta  la troviamo nelle prime parole del testo. 

La libertà di espressione e della parola ora nei paesi Occidentali viene tutelata ed  i critici del regime sono liberi di scrivere le proprie opinioni (ed anche le idiozie), se non al giornale almeno sui social media e sulle pagine web come questa.



sabato 14 ottobre 2017

L'EVOLUZIONE DALL'HOMO SOVIETICUS ALL'UOMO DI PUTIN

COME I DECENNI HANNO LASCIATO IL SEGNO DELLA VITA DEI RUSSI.

- di M. Noris

Il Moscow Times pubblica un interessante articolo che riassume come la vita dei russi è cambiata negli ultimi decenni (link in calce).

L'uomo sovietico è l'archetipo di una persona nata e formata durante un regime totalitario, abile ad escludere le richieste delle autorità pur mantenendo contemporaneamente relazioni informali e corrotte con loro.
Ha poche richieste, dubita profondamente di tutti e vuole solo una cosa: sopravvivere.

Negli anni '90 la Russia si orienta verso l'Occidente e l'Europa: addirittura il 40% dei russi pensava che il loro paese dovesse aderire all'UE e alla NATO.
Il 47% della popolazione si rende conto che i loro problemi erano interni, più che dovuti ad un nemico esterno. Questo complesso di inferiorità è stato, in un certo senso, una condizione per le riforme.

Per le persone abituate al socialismo, gli anni '90 sono stati puro caos, con conseguente perdita del rispetto di sé e della dignità.

Poi Vladimir Putin è arrivato sulla scena dicendo: "Non c'è niente di cui vergognarsi. Ognuno ha scheletri nel loro armadio. Scriviamo una nuova pagina della nostra storia".

Con ciò è arrivata la convinzione che la Russia abbia il diritto ad usare la forza, soprattutto sulle sue frontiere. L'orgoglio russo è stato ferito quando le ex repubbliche sovietiche hanno cambiato alleanze.

Prima di Maidan, circa il 75% dei russi affermava che l'integrazione dell'Ucraina in Europa non erano affari della Russia; attitudine cambiata bruscamente con i media che parlano di "genocidio" dei russi nel Donbass e di fascismo ucraino in Crimea.

Nei sondaggi, oggi i russi descrivono l'Occidente come freddo e privo di valori spirituali, formale e aggressivo. Non ritengono più che il modello occidentale sia per loro.

E tuttavia, mentre la politica estera di Putin gode di un supporto tacito, ha dei limiti seri: le persone ritengono infatti di non avere alcun potere decisionale.

La Russia è uscita dagli anni '90 con un'economia consumistica, graziata dalle lobby del petrolio.
"Putin si prende cura di noi" è una risposta spesso ascoltata nei sondaggi.
I diritti umani e le libertà individuali sono solo parole per la maggioranza della popolazione. Allo stesso tempo, gli atteggiamenti alla repressione si sono ammorbiditi. Josef Stalin, la cui popolarità sta aumentando costantemente anche tra coloro che ha sofferto più sotto di lui, è visto come un gestore efficace che merita il rispetto. Questo ritorno al concetto sovietico di governance è più comune tra gli anziani che vivono in campagna.
Le persone in città sono più istruite, tuttavia la stragrande maggioranza è completamente disinteressata alla vita politica. Alla domanda se vogliono essere più coinvolti, l'85% delle persone dice no. La politica, dicono, non ha niente a che fare con loro.

Da un lato, i russi descrivono la loro società come brutale e incivilizzata. D'altra parte, si considerano aperti e caldi, al contrario di quelli freddi, chiusi e ipocriti in Occidente.

Oggi il russo medio si aspetta uno standard minimo di vita - lavoro, casa e alcuni diritti sociali. La proprietà privata è valutata, ma nessuno si aspetta alcuna garanzia. La gente sa che il governo può portare via tutto quello che hanno in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo.

La teoria che i russi non siano in qualche modo preparati per una democrazia liberale è falsa. Semplicemente, ora non c'è alcun desiderio di cambiamento. L'idealismo e il romanticismo dell'epoca della Perestroika sono evaporati.
I giovani che hanno partecipato alle proteste contro la corruzione organizzate da Alexei Navalny sono un'eccezione. 

Ci vorrà più di una generazione per cambiare.

https://themoscowtimes.com/articles/the-evolution-of-homo-sovieticus-to-putins-man-59189




mercoledì 11 ottobre 2017

ROSATELLUM O ALTRO SISTEMA ELETTORALE NON E' IL NOCCIOLO DELLA QUESTIONE



Dopo il via libera in Commissione, ok al voto di fiducia sul Rosatellum: come nel corso della aspra polemica su Italicum, vorremmo ricordare ai nostri affezionati amici che il sistema elettorale NON determina il sistema politico.

Certo, i due aspetti si influenzano ma non esiste un determinismo assoluto ... come abbiamo più volte scritto, in un mondo ideale, il sistema elettorale dovrebbe evolversi per meglio assecondare e soddisfare le istanze politiche e sociali del paese, non usato come grimaldello per ottenere il risultato sperato. In questo senso, il diavolo sta nel dettaglio, nella parte della riforma allegata al testo principale che si intitola: “Delega al Governo per la determinazione deicollegi elettorali uninominali e plurinominali” . 

Questa delega fornisce gli strumenti opportuni per portare a termine quello che nel vocabolario politico anglosassone si chiama Gerrymandering, cioè un sistema a tavolino tramite la ridefinizione dei collegi influenza il risultato finale.

Porcellum, Italicum, Rosatellum etc etc pari sono (al netto delle vere o presunte incostituzionalità del testo) ... gli strumenti per influenzare intelligentemente i risultati senza cambiare i fondamentali del sistema politico sono altri e ben più sottili.

Gerrymandering



 STRUMENTI: DOSSIER ITER LEGISLATIVO LEGGE ELETTORALE (Atto Camera 2352)

martedì 3 ottobre 2017

ORGANISMI PARITETICI E SICUREZZA SUL LAVORO

ORGANISMI PARITETICI E SICUREZZA SUL LAVORO: C'È UNA LUCE IN FONDO AL TUNNEL... O È IL TRENO?

di M. Noris



Sono passati mediamente due anni dalla pubblicazione delle liste regionali degli Organismi Paritetici: è cambiato qualcosa?
Dovendo anticipare qualcosa, la risposta è passata da un "fatti li cazzi tua" ad un "boh" incerto.

Ma facciamo un salto indietro.

Il D.Lgs. n. 81/2008, ormai quasi 10 anni or sono, ha formalmente designato gli Organismi Paritetici (OP) per la formazione aziendale in tema di salute e sicurezza sul lavoro.

Cosa sono gli OP? Dicesi OP enti o associazioni di categoria cui, a livello locale (generalmente provinciale), il datore di lavoro deve rivolgersi per formare i propri dipendenti in tema, appunto, di salute e sicurezza, e per supporto nell'individuazione di soluzioni tecniche e organizzative.

Fin qui tutto bene, se non fosse che il legislatore, in preda all'enfasi del momento, si era dimenticato di specificare sia quali fossero questi OP, sia quali certificazioni dovessero esibire (oltre ad altri buchi normativi assortiti).

Il risultato fu che negli anni successivi gli OP spuntarono dal nulla come funghi, vendendo alle aziende certificati scritti col pennarello e organizzando corsi di formazione seduti in trattoria bevendo lambrusco (vedi la Promotech di Modena, poi a processo).

La situazione divenne così confusa che 4 anni dopo il Ministero specificò, con l'Accordo del 25 luglio 2012, che il datore di lavoro era sì costretto ad informare gli OP in caso di formazione, ma non necessariamente ad attivarli. Il datore di lavoro è infatti libero di contattare formatori privati qualificati e l'adeguatezza formativa deve essere valutata sulla base dell'accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011, non sulla presenza o meno degli OP (la cui assenza poteva sinora essere sanzionabile).

Di fatto, però, le cose non cambiarono di un virgola e su tutta la vicenda troneggiava l'esilarante art. 37, comma 12, del suddetto d.lgs. che ricitava "il datore di lavoro che richieda la collaborazione di tali organismi (...) è tenuto a verificare che i soggetti che propongono la propria opera a sostegno dell’impresa posseggano tali caratteristiche".

Ci vollero altri 4 anni per assistere al miracolo: le Regioni, folgorate sulla via di Damasco, pubblicarono tra il 2015 e il 2016 la lista delle OP certificate. Aggiungendo un perentorio "mi raccomando, attenzione agli OP fasulli!"

Tutto bene, dunque? Senz'altro meglio, ma probabilmente non abbastanza. Molti degli OP fasulli sono scomparsi (anche se il fenomeno è tutt'altro che passato, complici alcuni datori di lavoro compiacenti), ma ancora sussistono dubbi.

Anzitutto l'RLS, ossia il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS), figura che deve essere prevista (e formata) per legge in ogni azienda: in sua assenza, il datore di lavoro è tenuto ad affidarsi agli OP che designeranno un RLST, ossia un RLS territoriale.

Piccolo particolare, l'assenza di tale figura non è sanzionabile (viene giustificata come diritto non esercitato dai lavoratori), e il RLST non ha in realtà alcun incarico ufficiale, finendo per contare come il due di briscola.

Un altro tema assolutamente non chiaro è quello del controllo. Chi vigila sulle procedure e sulla formazione? L'ispezione da parte dell'organo di vigilanza, tra i vari OP e azienda, appare decisamente complesso, anche di fronte ad una normativa così confusionaria. Molto spesso la formazione non appare sufficiente, e non di rado i corsi sono standard per tutte le categorie. Unica nota positiva, il D.Lgs. n. 81/2008 avrebbe abrogato l'art.7 della legge delega n. 123/2007, che avrebbe investito gli OP anche di poteri ispettivi.

Anche la presenza degli OP appare a volte insufficiente quando presente, nel caso tali enti fossero contattati da tutta la categoria.
Ancora, la mancata collaborazione con tali enti pare venga, in alcuni casi, malvista dagli Organi di vigilanza.

In questo bailamme normativo, la domanda resta sempre la stessa: possibile non riusciamo nemmeno ad organizzare un sistema formativo aziendale sensato?

domenica 1 ottobre 2017

CATALOGNA : IL GIOCO DEL POLLO

CATALOGNA : IL GIOCO DEL POLLO

L'escalation del conflitto verbale, istituzionale ed ora fisico fra gli indipendentisti  ed il governo centrale di Madrid ripropone ancora una volta il classico caso, noto nella teoria dei giochi come ''il gioco del pollo''.

Ambedue i contendenti si muovono uno contro l'altro e nessuno vuole correggere la sua rotta per primo, evitando in tal modo lo scontro ma perdendo la faccia.

Se si continuera' di questo passo lo scontro appare inevitabile e sara' certamente doloroso non solo per la Spagna ma per tutta l'Europa.

Come in altri recenti eventi nel mondo pare che ci sia persa di vista la regola aurea della diplomazia internazionale secondo la quale al proprio avversario va sempre lasciata una via di uscita onorevole.