Candidati Senza Voce fa proprio l’appello lanciato dal presidente del consiglio nazionale ingegneri, Armando Zambrano, per il quale "... serve una legge per certificazione antisismica".
Il punto è sempre lo stesso, soltanto una piccola percentuale degli edifici nelle zone ad alto rischio sismico rispetta lo standard di sicurezza, e il terremoto di pochi giorni fa ha rilevato come al solito l'ennesima fragilità delle strutture italiane.
Occorre quindi uscire dalla logica secondo la quale in Italia ci si muove o quando è troppo tardi, o quando c'è da lucrare, nella logica dell’emergenza continua. Ciò non riguarda solo le istituzioni, ma anche la responsabilizzazione dei cittadini, a ben pochi dei quali interessa davvero sapere se la casa nella quale abitano o che sono in procinto di acquistare / affittare sia a norma.
E’ pur vero che gli edifici di nuova costruzione, ad uso pubblico o privato, sono soggetti a collaudo statico, ma se esso non prevede il controllo delle misure anti-sismiche, non serve a nulla. Inoltre, la legge non copre il patrimonio immobiliare già esistente, quello prevalente nei borghi storici italiani, dove si registra il maggior numero di vittime per eventi sismici. Va anche ricordato che una legge non è equivalente ad una certificazione. Nel secondo caso un esperto viene in casa e verifica i lavori per confermare la conformità. E questo sistematicamente in tutte le case. Come con la performance energetica. Essa servirebbe per il cambiamento di prospettiva, quello che ricordavamo precedentemente: dalla ricostruzione (reattiva) alla prevenzione (proattiva) con una certificazione serve se risponde a criteri sostanziali.
Il tema va affrontato su due livelli: quello etico (il fine ultimo che è quello di salvare vite umane) e quello puramente utilitaristico, vale a dire il rapporto costi/benefici derivanti da una strategia “preventiva” (non del terremoto, naturalmente, ma dei danni derivanti da strutture inadeguate). Se sul tema etico è difficile fare calcoli di costo/opportunità, teniamo presente comunque che i soldi si spendono male a tragedia consumata, come ci ricorda lo studio sul “costo dei terremoti in Italia” pubblicato dal Centro Studi Consiglio Nazionale Ingegneri a novembre del 2014.
Ora, sarebbe stagliato pensare che la certificazione da sola costituisca la pietra filosofale … essa è nondimeno uno strumento essenziale e va assolutamente evitato il rischio di perdersi nel formalismo e nella burocrazia costosa ed inutile: il tema deve quindi essere affrontato in maniera pragmatica e non ideologica. Si tratta di un processo che prevederà tempi molto lunghi e andrà dettagliato tenendo conto, inter alia, di:
Il punto è sempre lo stesso, soltanto una piccola percentuale degli edifici nelle zone ad alto rischio sismico rispetta lo standard di sicurezza, e il terremoto di pochi giorni fa ha rilevato come al solito l'ennesima fragilità delle strutture italiane.
Occorre quindi uscire dalla logica secondo la quale in Italia ci si muove o quando è troppo tardi, o quando c'è da lucrare, nella logica dell’emergenza continua. Ciò non riguarda solo le istituzioni, ma anche la responsabilizzazione dei cittadini, a ben pochi dei quali interessa davvero sapere se la casa nella quale abitano o che sono in procinto di acquistare / affittare sia a norma.
E’ pur vero che gli edifici di nuova costruzione, ad uso pubblico o privato, sono soggetti a collaudo statico, ma se esso non prevede il controllo delle misure anti-sismiche, non serve a nulla. Inoltre, la legge non copre il patrimonio immobiliare già esistente, quello prevalente nei borghi storici italiani, dove si registra il maggior numero di vittime per eventi sismici. Va anche ricordato che una legge non è equivalente ad una certificazione. Nel secondo caso un esperto viene in casa e verifica i lavori per confermare la conformità. E questo sistematicamente in tutte le case. Come con la performance energetica. Essa servirebbe per il cambiamento di prospettiva, quello che ricordavamo precedentemente: dalla ricostruzione (reattiva) alla prevenzione (proattiva) con una certificazione serve se risponde a criteri sostanziali.
Il tema va affrontato su due livelli: quello etico (il fine ultimo che è quello di salvare vite umane) e quello puramente utilitaristico, vale a dire il rapporto costi/benefici derivanti da una strategia “preventiva” (non del terremoto, naturalmente, ma dei danni derivanti da strutture inadeguate). Se sul tema etico è difficile fare calcoli di costo/opportunità, teniamo presente comunque che i soldi si spendono male a tragedia consumata, come ci ricorda lo studio sul “costo dei terremoti in Italia” pubblicato dal Centro Studi Consiglio Nazionale Ingegneri a novembre del 2014.
Ora, sarebbe stagliato pensare che la certificazione da sola costituisca la pietra filosofale … essa è nondimeno uno strumento essenziale e va assolutamente evitato il rischio di perdersi nel formalismo e nella burocrazia costosa ed inutile: il tema deve quindi essere affrontato in maniera pragmatica e non ideologica. Si tratta di un processo che prevederà tempi molto lunghi e andrà dettagliato tenendo conto, inter alia, di:
- Limitazione nel numero dei “certificatori” , che andranno reclutati e formati;
- Impatto sul sistema delle oltre 600 mila imprese edili nel paese. Va considerata, da un lato, la capacità di effettuare il volume dei lavori richiesti in tempi ragionevoli e dall'altro canto, come un investimento multi-miliardario spalmato in decenni potrebbe far ripartire tutto il comparto edile e non solo, con benefici incommensurabili. Ottenuto, tra l'altro, senza consumo di suolo, visto che si tratterebbe di ristrutturare e mettere in sicurezza l’esistente. La ricchezza creata potrebbe essere di gran lunga maggiore della spesa e potrebbe mettere al lavoro ingegneri architetti geometri storici dell'arte e rilanciare mestieri oggi quasi abbandonati e lasciati a maestranze di scarsa qualità. I rischi da tenere in considerazione sono altrettanto importanti: se il piano di messa in sicurezza fosse realizzato in maniera non armonica si verificherebbe un “stiramento” artificiale di un intero settore economico, con una crescita impetuosa ed un altrettanto repentino crollo quando si tornerà inevitabilmente a regime con conseguente crisi del settore ed un esercito di disoccupati da mantenere.
- Costi della messa in esercizio del sistema di certificazione (spesa immediata e certa rispetto a guadagni attesi futuri): come lo si finanzia?
- Ripartizione dei costi di ristrutturazione fra finanze pubbliche e cittadini, attraverso un sistema di compartecipazione, compensato da sgravi fiscali (sistema attualmente in opera per le opere di ristrutturazione, risparmio energetico, etc.);
- Qualora la certificazione dia esito negativo e siano richiesti lavori per la messa in opera, adeguati tempi tecnici vanno lasciati ai proprietari prima che l’abitazione sia dichiarata inagibile.
- Tendenza ad aspettare l’ultimo giorno per la messa in regola -> non linearità temporale dell’operazione una volta entrati “a regime” dopo l’avvio -> impossibilità pratica di metterla in pratica per le limitazioni strutturali di cui ai punti 1 e 2 di cui sopra
- Preservare principio della responsabilità individuale: il cittadino può entro certi limiti accettare coscientemente un rischio (es. rimanere sotto le macerie in un terremoto in casa sua), ma allo stesso tempo va informato chiaramente dei rischi connessi. Ad esempio, la certificazione in un primo tempo potrebbe essere resa obbligatoria per i pubblici esercizi; gli edifici pubblici; far parte dei documenti obbligatori da prodursi in caso di vendita o locazione di un immobile privato.
- Bottom line: chiara e trasparente ripartizione dei costi, unita ad una comunicazione precisa e non partigiana; limitando la ridistribuzione di risorse da una parte della popolazione ad un’altra una volta “a regime”; assicurando la “neutralità” dell’operazione in termini economici nel medio-lungo termine.
E' quindi necessaria una profonda e dettagliata riflessione tecnico-economico-politica che porti all'elaborazione di un articolato "robusto", che "spalmi" i suoi effetti in tempi lunghi, unito ad un piano di “transizione” generazionale che porterà in qualche decennio a chiederci “ma perché non l’abbiamo fatto prima”?
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